Fonti normative

La possibilità di svolgere una attività commerciale dotandosi dello strumento (società) ritenuto più confacente al progetto aziendale è, in ambito comunitario, legittimato dai principi cardine del diritto comunitario.

Vengono in considerazione, innanzitutto, le norme del Trattato istitutivo della Comunità europea. L’art. 43, al comma 1, vieta le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di altro Stato membro, ed estende tale disciplina all’apertura di agenzie,

succursali o filiali (c.d. diritto di stabilimento secondario) 3. Lo stesso art. 43, al comma 2, precisa che la libertà di stabilimento importa l’accesso, tra l’altro, alla costituzione e gestione di imprese ed

in particolare di società, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini (c.d. diritto di stabilimento primario).

Ai sensi dell’art. 48 del Trattato CE, “le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità, sono equiparate, ai fini dell’applicazione del presente capo, alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri. Per società si intendono le società di diritto civile o di diritto commerciale, ivi comprese le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopo di lucro”.

Nell’aspetto pratico la norma citata trova fondamento applicativa in una serie di sentenze una della Corte di Giustizia, tra cui la sentenza Centros, del 9 marzo 1999, causa n. 212/97. (Le sentenze della Corte di Giustizia assumono un’importanza fondamentale ai fini dell’interpretazione delle norme comunitarie. Alla Corte compete, infatti, l’interpretazione in via pregiudiziale delle norme del Trattato e delle altre fonti comunitarie – art. 234 del Trattato CE).

Nella citata sentenza la Corte ha avuto modo di precisare:

1) – che è legittimo, per una società comunitaria, costituirsi in uno Stato membro ed esercitare, invece, esclusivamente in un altro Stato membro la propria attività;

2) – che la suddetta circostanza non è di per sé sufficiente a configurare un abuso del diritto comunitario, tale da legittimare restrizioni alla libertà di stabilimento da parte dello Stato ospitante;

3) – che, in particolare, non può essere rifiutata la registrazione di una succursale in uno Stato membro diverso da quello di costituzione, per il solo fatto che in quest’ultimo non venga svolta alcuna attività da parte della società;

4) – che l’elusione delle disposizioni di uno Stato membro che prevedono un capitale minimo della società non legittima restrizioni alla libertà di stabilimento in base all’art. 46 del Trattato (per motivi cioé di ordine pubblico); da un lato, infatti, i creditori dello Stato ospitante si troverebbero nelle medesime condizioni se la società effettivamente esercitasse la propria attività principale nello Stato di costituzione, e solo in via secondaria operasse nello Stato della propria sede effettiva; dall’altro lato, la tutela dei creditori e dei terzi è sufficientemente perseguita dalle norme che tutelano, per l’appunto, l’informazione a favore di tali soggetti (quarta direttiva CE, n. 78/660 del 25 luglio 1978, sui conti annuali di alcuni tipi di società; undicesima direttiva CE, n. 89/666 del 21 dicembre 1989, sulla pubblicità delle succursali), e quindi dalla possibilità, per detti creditori, di conoscere la legge regolatrice della società e di precostituirsi, all’occorrenza, apposite garanzie;

5) – che i provvedimenti nazionali che possono ostacolare o scoraggiare l’esercizio della libertà di stabilimento per motivi di interesse generale devono soddisfare, secondo la giurisprudenza della Corte, quattro condizioni: devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificati da motivi imperativi di interesse pubblico, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito, e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo; tali condizioni non sono soddisfatte nella fattispecie in esame;

6) – che non è peraltro possibile avvalersi abusivamente e fraudolentemente del diritto comunitario al fine di sottrarsi all’imperio di una legge nazionale (con possibilità quindi dello Stato in cui è posta la sede effettiva della società di adottare tutte le misure idonee a prevenire e sanzionare le frodi); ma che il mero fatto di costituire una società in uno Stato membro e poi esercitare l’attività commerciale, anche a mezzo di una succursale, in altro Stato membro non configura di per sé abuso del diritto comunitario.

Le suddette conclusioni sono state ribadite dalla sentenza Überseering del 5 novembre 2002, causa n. 208/2000, che ha altresì precisato quanto segue:

1) – l’art. 293 del Trattato CE non costituisce una riserva di competenza a favore degli Stati membri in relazione al riconoscimento delle società ed al mantenimento della relativa personalità giuridica, poiché prevede l’esigenza di negoziati tra gli Stati membri solo “per quanto occorra”, ossia nelle ipotesi in cui le disposizioni del trattato non consentono di realizzare gli obiettivi dello stesso; si tratta, in altri termini, di convenzioni che possono facilitare la realizzazione della libertà di stabilimento, ma in loro assenza l’esercizio di tale libertà non può comunque essere condizionato;

2) – quindi lo Stato membro in cui la società intenda trasferire la propria sede effettiva non può disconoscere la personalità giuridica di origine della società, e di conseguenza la sua capacità di diritto sostanziale e processuale, anche se tale società non è conforme, nella sua organizzazione, alla legge dello Stato in cui venga a trovarsi la sede effettiva;

3) – conseguentemente sono illegittime, dal punto di vista comunitario, le disposizioni della legge nazionale (come quella tedesca) che obbligano, in tali ipotesi, la società che abbia trasferito la propria sede effettiva a ricostituirsi (o adeguare il proprio statuto) in conformità alle disposizioni dello Stato ospitante;

4) – l’elusione di disposizioni imperative dello Stato della sede effettiva (quali quelle sul capitale minimo, sul diritto dei gruppi, sulla cogestione da parte dei lavoratori), se può – in determinate circostanze e condizioni – legittimare restrizioni alla libertà di stabilimento, in nessun caso giustifica il disconoscimento della personalità e capacità giuridica dell’ente;

5) – l’acquisizione da parte di una o più persone fisiche residenti in uno Stato membro di partecipazioni di una società costituita in un altro Stato membro rientra nella disciplina della libera circolazione dei capitali, allorché a seguito di tale acquisizione non si conferisca a tali persone il controllo della società, mentre in caso contrario rientra nella disciplina della libertà di stabilimento.

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